In questo articolo proveremo a dare una visuale a volo d’uccello sugli scenari che si sono aperti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America; scenari che si annunciano complessi sia sotto il profilo della politica interna che sotto il profilo della politica estera.
Esteri
Lo scenario di politica estera che si delinea è molto più complesso rispetto a quanto appaia a prima vista. Al netto delle semplificazioni propagandistiche portate avanti da molti media non è affatto scontato che si distendano significativamente i rapporti tra Federazione Russa ed USA. La politica internazionale non è questione di liti tra bambini dell’asilo ma di condizioni materiali e gli interessi statunitensi e russi sono contrapposti in molti scenari: nel Baltico e nel Mare del Nord – comprendendo in esso anche il Mare Artico – tutte aree oceaniche ricche di risorse fossili; nel Medio Oriente e nel Nord Africa, nel Caucaso e nell’Asia Centrale. Certo vi potrebbe essere un accordo sull’Ucraina: riconoscimento de iure – il riconoscimento de facto c’è già – della sovranità russa sulla Crimea in cambio di un minore appoggio agli indipendentisti russofoni in Ucraina e, magari, un accordo con Kiev patrocinato dagli USA per riconoscere una semi-autonomia al Donbass. D’altra parte per Mosca la partita ucraina si giocava principalmente sulla Crimea e lì ha già vinto.
Per la Siria la presenza di una serie di altri attori rende estremamente più difficile un accordo di lunga durata: la Turchia gioca oramai in modo molto più indipendente rispetto al passato,[1] Israele pur considerando Assad il suo “miglior nemico” ha tutto l’interesse che il vicino siriano rimanga in preda alla frammentazione; l’Arabia Saudita ed altre petromonarchie sono oramai in rotta di collisione sia con la Russia sia con gli USA, sia per la questione irakena dove gli USA hanno accettato l’ampliamento della sfera d’egemonia iraniana, sia per la questione del prezzo del petrolio. Se la decisione saudita di non tagliare la propria produzione e di mantenere basso il prezzo del greggio a livello globale ha danneggiato pesantemente l’economia russa causando una generale crisi dei consumi[2] che forse sta lentamente rientrando, questa decisione ha danneggiato anche l’economia americana colpendo nel corso del 2015 il settore dei prodotti di scisto.[3] Questo settore è strategico per gli USA, che negli ultimi anni hanno teso verso l’autosufficienza energetica, ma è ancora più strategico per l’amministrazione Trump: questi ha basato la campagna elettorale sul rilancio della manifattura, rilancio che non può che passare dal settore energetico. Arabia Saudita e Stati Uniti sono però doppiamente legati su più fronti – a partire da quello militare – in quanto gli stati arabi del Golfo sono fondamentali per la capacità di proiezione militare americana sia in Medio Oriente sia nell’Oceano Indiano. Anche se petroemiri e petromonarchi hanno puntato sopratutto sull’elezione di Hillary Clinton, come dimostrano le decine di milioni di dollari di finanziamento alla Fondazione Clinton, dovranno ingoiare un po’ di rospi e lavorare con Donald Trump.
Forse la chiave di un nuovo partenariato strategico potrebbe essere la rinegoziazione dell’accordo sul nucleare israeliano, annunciato da Trump durante la campagna elettorale, accordo che aveva incrinato i rapporti anche tra USA e Israele. A proposito di accordi internazionali: Trump potrebbe rimettere in discussione anche la politica di Obama di apertura verso Cuba bloccando la politica del disgelo inaugurata dall’uscente amministrazione democratica. D’altra parte un 30% della comunità latina negli USA ha votato per Trump ed egli ha vinto anche in Florida dove vi è un’importante comunità di Cubani ferocemente anticastristi.
Poi vi è la partita del Pacifico. Per mettere in pratica la politica di rilancio industriale degli USA l’amministrazione Trump si dovrà necessariamente scontrare con gli interessi di molti stati asiatici del Pacifico. Ovviamente la Cina: questa è il principale concorrente manifatturiero degli Stati Uniti e ha interessi divergenti in molti campi. Le ultime amministrazioni democratiche, i due mandati di Obama, non a caso si sono concentrati sul contenimento dell’Impero di Mezzo. Ma, attenzione, la Cina possiede anche una considerevole quota del debito pubblico statunitense e sta attuando una politica di penetrazione pluriennale nell’America Latina[4] e questo inserisce ulteriore complessità nella partita.
Inoltre una politica di rilancio industriale nazionale negli USA significa anche scontrarsi con gli interessi dei propri alleati nel Pacifico: Corea del Sud, Giappone, Taiwan ma anche con gli interessi delle Filippine e con quelli del Vietnam. Vi è inoltre la questione indiana: l’India e gli USA hanno da anni un ottimo rapporto mentre le relazioni sino-indiane sono pessime, così come quelle indo-pakistane. Ma l’india esporta verso gli USA e non esporta solamente merce: esporta lavoratori altamente qualificati. Una stretta sull’immigrazione, come quella promessa da Trump, colpirebbe l’India, si possono PERò sempre rilanciare gli accordi bi-laterali in merito già esistenti[5] per salvare le apparenze senza cambiare la sostanza. In ogni caso l’India – che teme da anni la politica del “filo di perle” messa in atto dalla Cina – e gli USA avranno necessità di stringere ulteriormente i legami in quanto bisognosi di appoggio reciproco.
Inoltre vi è la questione dei rapporti atlantici. Le sanzioni alla Russia volute dall’amministrazione Obama e che un’eventuale amministrazione Clinton avrebbe riconfermato se non addirittura inasprito stanno danneggiando l’economia manifatturiera europea, che ne risulta molto più danneggiato di quella russa. Se vi fosse una distensione, per lo meno sulla questione Ucraina, tra Russia e USA sicuramente molti in Europa tirerebbero un sospiro di sollievo. Probabilmente però sarebbe un sospiro momentaneo: se permane la congiuntura economica che vede un basso prezzo delle commodities energetiche, il potere d’acquisto russo continuerà a risultare danneggiato. In ogni caso una distensione dei rapporti tra Russia ed USA sarebbe positivamente accolta da paesi come l’Italia, la Francia e la Germania ma molto meno dai paesi baltici, che hanno giocato sulla paura dell’orso russo per ottenere fondi economici. In ogni caso i rapporti atlantici saranno difficili: se con un’amministrazione Clinton i paesi europei si sarebbero trovati in difficoltà con la politica dei falchi anti-russi e male avrebbero digerito richieste di ulteriori sanzioni alla Russia o di maggiore impegno in Siria, con l’amministrazione Trump le cancellerie del vecchio continente avranno a che fare con una controparte americana che è fondamentalmente un’incognita e con cui facilmente sorgeranno contrasti su questioni a prima vista secondarie ma che, in ambito diplomatico, possono essere importantissime. In ogni caso l’elezione di Trump segna il probabile tramonto di ogni ipotesi di TTIP, date le sue ripetute dichiarazioni in tal senso.
Interni
La campagna elettorale ha mostrato che moltissime contraddizioni sono presenti negli USA, comprese quelle che alcuni si illudevano di avere superato. A ben vedere quanto successo nelle ultime settimane altro non era che fuoco sotto la cenere: gli ultimi due anni visto tornare in scena le proteste delle comunità afro americana, il 12 % della popolazione, con il movimento Black Live Matter, così come sta emergendo un nuovo protagonismo delle comunità native nelle lotte ambientali, come dimostrano l’esemplare lotta di Standing Rock, North Dakota, contro la costruzione di un oleodotto e le centinaia di proteste contro la pratica del’estrazione di olio di scisto e le conseguenze ad essa collegata come l’estensione delle pratiche di land grabbing.
Vi è poi la questione dei lavoratori immigrati che non hanno i documenti in regola. Gli ultimi due anni della presidenza Bush avevano visto significative mobilitazioni dei lavoratori d’origine straniera, sopratutto latini, compresa la grande giornata di boicottaggio e sciopero del primo maggio 2006, in risposta all’intensificarsi della pressione nei confronti di questi lavoratori. Durante la presidenza Obama queste proteste sono in buona parte rientrate: possiamo ipotizzare che questo sia dovuto alla capacità del Democratic Party di cooptare al suo interno l’associazionismo e la cosiddetta società civile, disarticolando nei fatto i movimenti qualora questi non si diano forme organizzative che garantiscano l’autonomia d’azione; in ogni caso le deportazioni di clandestini sono continuate. D’altra parte i lavoratori senza documenti sono fondamentali per certi settori economici come l’agricoltura negli stati confinanti con il Messico e per settori di servizio a bassa specializzazione: quindi questi lavoratori devono rimanere ricattabili e più facilmente sfruttabili.
Un muro al confine con tra California e Messico esiste già e ha fatto molti morti e quel muro è stato voluto dall’amministrazione Clinton a metà anni novanta. In Texas squadre di poliziotti e di vigilantes privati pattugliano a loro volta il confine dove, per altro, sono presenti anche sistemi di recinzione. Trump non costruirà un muro lungo tutta la frontiera, ma inasprirà i controlli e la pressione nei confronti dei lavoratori di origine straniera e darà più poteri alla polizia, anche ai vigilantes privati, che pattugliano il confine.
Altro fronte che si annuncia caldo è quello delle lotte ambientali. Trump e il suo entourage sono notoriamente dei negazionisti sulla questione del riscaldamento globale e quindi rispondono direttamente agli interessi dell’industria dei combustibili fossili. Negli USA l’estrazione di idrocarburi di scisto sta creando gravi danni ambientali e vi è stato un impulso alla costruzione di nuovi oleodotti. Se già sotto l’amministrazione Obama vi era stata una certa repressione – basti vedere come si è evoluta la lotta a Standing Rock – possiamo ipotizzare che sotto l’amministrazione Trump questa repressione non farà altro che peggiorare. D’altra parte Trump e i suoi consiglieri si sono detti più volte favorevoli al potenziamento degli apparati polizieschi e della sorveglianza digitale. In campagna elettorale il presidente eletto si è detto anche favorevole all’espansione della pratica dei controlli su chi acquista armi, creando liste compilate su criteri segreti di persone a cui dovrà essere impedito di accedere ad armamenti. Della deriva autoritaria data da queste pratiche avevamo già scritto.[5]
Al contempo potremo vedere ringalluzzite sia le milizie di estrema destra sia il sempre più pervasivo apparato poliziesco. Questo è stato costantemente potenziato nel corso degli ultimi trenta anni: l’amministrazione democratica di Obama aveva messo alcune pezze di facciata in merito, ma nei fatti si può tranquillamente parlare negli USA di polizia militarizzata.[6] Chi ne farà le spese ovviamente saranno i movimenti sociali: quelli ambientali ma anche movimenti come Black Live Matter – entrambi hanno già avuto modo di avere a che fare con una polizia ultra militarizzata che non si fa problemi ad usare gas lacrimogeni e ad effettuare caroselli con le autoblindo – così come i movimenti che attuano forme di lotta economica, come quello per la paga minima oraria a 15 USD. Per chi pratica organizzazione in senso intersezionista, coniugando questioni ambientali, di genere, di classe, di pratiche antirazziste, è evidente come il futuro governo statunitense riuscirà ad essere ancora più classista, razzista, sessista e devastatore dell’ambiente di quelli immediatamente precedenti, emanazione diretta dei settori più retrivi del capitale. Non è un caso che nelle ore immediatamente successive all’elezione di Trump un numero non quantificabile ma altissimo di individui sia sceso in strada. Se alcuni potevano essere fans della Clinton, moltissimi altri sono persone che non hanno votato, vuoi perché astensionisti strategici vuoi perché schifati anche dagli altri candidati: nelle città della costa Ovest sono scese in strada anche sezioni del sindacato rivoluzionario IWW e collettivi anarchici. Intendiamoci: una vittoria della Clinton sarebbe stata invisa a tutti coloro che agiscono in senso autogestionario e radicale, ma è stato colto fin da subito come le politiche di Trump tendano ad un peggioramento immediato delle condizioni di vita degli sfruttati.
La politica come febbre tifoide e malafede
Ovviamente non possiamo farci sfuggire le reazioni entusiaste all’elezione di Trump che vi sono stati da parte di taluni qua in Italia. Lasciamo da parte i vari Salvini e concentriamoci maggiormente su quei settori di politica come pentastellati e neostalinisti. Se i primi vedono personaggi come Trump come il candidato anti-estabilshment (ricordiamo: un palazzinaro speculatore erede di una famiglia di palazzinari speculatori), i secondi invece si eccitano all’idea che questo rappresentate della parte più reazionaria della borghesia statunitense troverà un accordo con il campione della borghesia reazionaria russa, Putin, oramai assunto a status di loro idolo. La logica vorrebbe che gli accordi in politica se si trovano – ed è ancora tutto da vedere se così sarà – si trovano sulla testa di qualcuno. Purtroppo da quelle parti sono affetti o da febbri che inibiscono le capacità cognitive o da malafede, per cui è necessario ripetere anche che quel qualcuno sulla cui testa verrà trovato l’accordo saremo noi: gli sfruttati.
A questi figuri che già parlano del complotto del gran villain Soros come motore delle manifestazioni contro Trump, che cianciano di manifestanti pagati, di pullman organizzati, di tentativo di rivoluzione colorata, va ricordato sia il buon vecchio principio dell’autonomia di classe sia che coloro che sono scesi in strada a Portland ben sanno chi è Trump, chi sono i suoi comitati elettorali locali e quali politiche portano avanti. Frattanto i liberals italiani versano amare lacrime per la sconfitta della loro campionessa, la democratica Clinton che ha sostenuto tutti gli interventi militari, compreso il disastroso intervento in Libia, e ben addentellata con certi settori della finanza, e si consolano nell’idea che è colpa degli altri: colpa dei poveri ignoranti che hanno votato Trump, colpa del populismo, parola che oramai vuole dire tutto (e quindi nulla). Ovviamente non viene minimamente preso in causa il fatto che anni di politiche di macelleria sociale con il bollino liberal abbiano allontanato, non verso la destra ma molto più spesso verso l’astensione (ahinoi passiva), fette sempre crescenti di quello che un tempo era stato l’elettorato di riferimento di questi partiti.
lorcon
[1] Mentre questo articolo è in stesura è stata diramata dalle agenzie la notizia che la coalizione a guida USA non appoggerà la nuova offensiva turca in Siria.
[2] http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-09-16/russia-fuori-recessione-lentamente-e-rublo-piu-stabile-203652.shtml?uuid=AD7GwtLB
[3] http://www.forbes.com/sites/sarazervos/2016/01/26/saudi-arabia-shale-iran-everything-you-need-to-know-about-the-oil-crisis/#3f3f72f2794c
[4] http://www.economist.com/news/americas/21710307-chinas-president-ventures-donald-trumps-backyard-golden-opportunity
[5] https://photostream.noblogs.org/2016/07/la-stretta-autoritaria-negli-usa/ https://photostream.noblogs.org/2015/10/la-propaganda-alla-prova-dei-fatti/
[6] https://photostream.noblogs.org/2013/10/geneaologia-della-violenza-poliziesca/